
Essere buoni genitori non è un’impresa facile e pensare di raggiungere la perfezione è un’utopia. Il lavoro del genitore si apprende con la pratica imparando dagli errori, che, nonostante tutta la buona volontà, a volte si fanno.
Donald Winnicott, uno dei più grandi teorici della relazione genitore-figlio, invita ad accontentarsi di essere genitori “sufficientemente buoni”, e anche lo psicanalista Bruno Bettelheim, parla di genitori quasi perfetti. Insomma, con i figli dobbiamo dare il meglio di noi, ma dobbiamo anche imparare ad accettare di avere dei limiti.
Di seguito propongo una serie di riflessioni per fare il punto sul proprio stile genitoriale.
✔Fare i conti con i bambini che siamo stati
I passi falsi sono inevitabili e spesso sono inscritti nella nostra storia di vita, perché traggono origine dalla relazione che abbiamo avuto con i nostri genitori quando eravamo bambini.
Ciascuno di noi ha la propria storia di figlio. Si deve inevitabilmente partire da qui per costruire un modo originale e unico di essere madri o padri. Questo processo dura tutta la vita: faremo sempre i conti con i bambini che siamo stati, ogni volta che dovremo decidere che genitori essere. Se abbiamo ferite aperte nella relazione con i genitori, è bene curarle, per dare risposta al bambino interiore che è rimasto dentro di noi perchè, se trascurato, troverà il modo di farsi sentire.
✔”Quando sarò grande non sarò mai un genitore come loro”
Quante volte, quando eravate figli, di fronte a certe parole, scelte, azioni dei vostri genitori vi siete detti: «Quando sarò grande, non dirò/farò mai una cosa simile»? Poi siete diventati adulti e magari vi siete ritrovati a comportarvi proprio in quel modo. Perché succede? E soprattutto, perché, un minuto dopo aver detto o fatto con vostro figlio proprio ciò che non volevate dire o fare, vi ritrovate soli e delusi di voi stessi, a domandarvi: “Che cosa mi sta succedendo? Perché mi comporto così?”. Quasi sempre, in situazioni simili, dentro di voi si innesca un conflitto tra il vostro bambino interiore e l’adulto che siete oggi. Quando seguite copioni che sapete essere disfunzionali e che avreste voluto evitare, è il bambino interiore che ha preso il sopravvento e ha annullato la capacità del “sé adulto” di agire con consapevolezza.
L’attaccamento primario
In altre parole, potremmo affermare che il nostro modo di reagire alla vita è condizionato dagli ingranaggi del sistema emotivo che abbiamo costruito nella prima infanzia, attraverso la relazione con gli adulti che si sono presi cura di noi. Queste relazioni primarie vengono definite con il termine “attaccamento”, che indica il legame che si sviluppa tra madre e neonato, basato sulla capacità della madre di prendersi cura dei bisogni del piccolo. Il concetto è alla base della teoria dell’attaccamento elaborata dallo psicologo britannico John Bowlby, alla quale oggi fanno riferimento praticamente tutte le correnti di pensiero della psicologia per analizzare il funzionamento mentale di ogni individuo. (👉Leggi il mio articolo LO STILE DI ATTACCAMENTO SVILUPPATO NELL’INFANZIA CONDIZIONERA’ TUTTO IL CORSO DELLA VITA)
✔Notare le situazioni che fanno perdere il controllo
Guardarsi dentro vi rende persone più sicure, e di conseguenza padri e madri migliori. Rivedere il passato a beneficio del presente non è un lusso concesso a pochi, non ci sono prerequisiti, non serve un titolo di studio. Tutti possono farlo, se lo vogliono.
Dobbiamo osservarci con coraggio e scovare le reazioni di cui non ci rendiamo conto.
E’ importante notare tutte le situazioni in cui semplici comportamenti dei figli, come parlare a voce alta, volerci stare appiccicati, starsene sdraiati sul divano, accendono un fuoco dentro, portando ad alzare la voce, a dare risposte secche e nervose, ad arrabbiarsi.
Ad esempio, un figlio preadolescente che, nel corso di un litigio, ci dice: «E poi è inutile che urli tanto, proprio tu che non ci sei mai quando ne ho bisogno». Questa frase potrebbe farci andare su tutte le furie e indurci a dare risposte del tipo: «Certo, perché io devo lavorare sodo per mantenervi tutti, per pagare le vostre spese, per permettervi di avere tutti i lussi e i vantaggi di cui godete senza nemmeno dire grazie, neanche una volta». Ora fermatevi a riflettere: chi sta soffrendo, in questa situazione?
Se davanti all’accusa di non essere abbastanza presenti ci si sente in balia di un’emozione molto intensa, forse il problema non è l’assenza nella vita dei figli, ma il papà o la mamma avuto nella propria infanzia.
A soffrire è il proprio bambino interiore che è dovuto crescere senza il sostegno del genitore, troppo impegnato nella propria professione . Se riuscite a diventare consapevoli di questo meccanismo, invece di reagire con rabbia, si potrebbe rispondere: «Mi dispiace molto che mi consideri un genitore assente. È l’ultima cosa che vorrei tu pensassi di me. Aiutami a capire come possiamo rimediare. La prossima settimana in quali situazioni vorresti che fossi presente? Che dici se la prossima volta che giochi a calcio mi libero e vengo a vederti?».
✔Mantenere la calma e riflettere
Spesso i genitori in sede di colloquio confidano: «Certe cose che mio figlio fa e dice per me sono intollerabili e mi ritrovo a urlare così forte che mi sente tutto il vicinato». Oppure: «Mi capita di strattonare mio figlio, anche se è l’ultima cosa che vorrei fare. Purtroppo, però, non riesco a frenarmi».
Queste frasi, questo volere una cosa e fare l’opposto, è una classica dimostrazione di ciò che potremmo chiamare ambivalenza genitoriale: una situazione in cui il papà o la mamma (o entrambi) si ritrovano a provare per il proprio figlio sentimenti misti di amore e avversione, di affetto e di rabbia. Alcuni comportamenti dei preadolescenti possono scatenare nei genitori reazioni ostili. A contare non è tanto quello che dicono, quanto la vostra reazione, la capacità di rimanere tranquilli e autorevoli di fronte alla loro intemperanza.
Se ponete un limite, date una punizione o sostenete una regola in modo fermo e deciso, è probabile che vostro figlio non vi faccia un applauso. Diciamo che, se protesta e si ribella, sta facendo il suo mestiere con gli strumenti cognitivi ed emotivi che ha.
Ma gli adulti siete voi: spetta a voi il compito di restare calmi.
Se ci riuscite, sarà più facile che anche il ragazzo, grazie al vostro esempio, impari con il tempo ad autoregolarsi meglio nei conflitti e nelle discussioni accese con voi. Perciò, quando un figlio suscita in voi un senso di minaccia e vi spinge quasi automaticamente ad avere reazioni molto forti, provate a contare fino a dieci e a chiedervi: “Perché mi sento così minacciato?”, o “Perché mi sto arrabbiando tanto?”. Forse il nervo scoperto che sta toccando non è nel qui e ora, ma ha a che fare con il passato.
✔Anche i genitori sbagliano e possono chiedere scusa
Quante volte raccolgo la confidenza di genitori che dicono: «Ieri proprio non ce l’ho fatta più e sono esploso/a», oppure «Dottoressa, ho dato fuori di matto. Avrei voluto non farlo, ma non sono riuscito/a a trattenermi».
Come ho detto non siamo persone perfette. Tantomeno genitori perfetti. E diventiamo migliori solo se riconosciamo i nostri sbagli e ne facciamo tesoro per evolvere. Se c’è una cosa che fa bene a un figlio, è trovarsi davanti un adulto consapevole delle proprie vulnerabilità, capace di riconoscere un errore, e di chiedere scusa. Molti adulti, specialmente gli uomini, pensano che scusarsi con un figlio li faccia apparire automaticamente deboli e meno autorevoli ai suoi occhi. Ma non è così: mostrare di aver capito dove abbiamo sbagliato, di non essere soddisfatti di come sono andate le cose è il modo migliore per far comprendere a un ragazzo che ha davanti una persona vera e consapevole, realista e moralmente integra.
Spesso, ciò che fa più soffrire nelle relazioni non è l’errore commesso, ma non ricostruire il legame dopo la rottura. E chiedere scusa è il modo migliore per ricucire uno strappo.
L’importante è non spaventarsi quando si sbaglia, non flagellarsi con i sensi di colpa, non cedere alla tentazione di svalutarsi o di negare quanto è successo.
Di fronte agli errori, ciò che davvero conta è imparare a riconoscerli per non ripeterli, parlarne con il partner e acquisire una buona dose di pensiero positivo e di fiducia in noi stessi.
Dott.ssa
Vania Munari
BIBLIOGRAFIA
PELLAI A., TAMBORINI B., L’età dello tsunami, DeAgostini, Milano, 2017
PELLAI A., L’educazione Emotiva, Fabbri Editori, Milano, 2016